IL DIRITTO ALLA FELICITÀ - DA PLATONE A DI MAIO
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Sulla bocca di odierni uomini politici impegnati nella gestione della cosa pubblica sentiamo risuonare spesso, negli ultimi decenni, la parola felicità come inequivoca denominazione di uno status che i governanti sono chiamati ad assicurare ai governati. Non contentezza, agio, serenità, benessere, ma proprio felicità, come l’eudaimonìa nella quale Platone identificava il connotato fondamentale e necessario di una società giusta e affidata al giusto governo dei filosofi.

Dopo il lungo silenzio che assegnava alla felicità un percorso ascendente relegandola al cielo, questa idea di felicità politica, orizzontale, sorretta da una visione filosofica e da un pensiero deciso a prospettare la migliore forma di organizzazione della società, diviene nel Settecento, in epoca di incondizionata fiducia nella ragione, un diritto umano fondamentale che dalla progettazione utopistica perviene alla positività giuridica, come nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti (1776), e in altre più precarie costituzioni, che registrano il diritto alla felicità accanto a quello alla libertà, alla vita, alla salute, alla cittadinanza, alla giustizia.

Resta da valutare se gli odierni, italici riferimenti alla felicità siano supportati da chiara percezione della realtà e del bene comune, capacità progettuale, bona fides; oppure se, per difetto di visione filosofica e storica, per ambiguità semantica, per incongruità di formulazione, e persino per furbizia, non siano piuttosto da relegare nella rigonfiata sfera delle parole vuote.




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